Wer wird nicht einen Klopstock loben?
Doch wird ihn jeder lesen? Nein.
Wir wollen weniger erhoben,
Und fleissiger gelesen sein!

Chi non loderà un Klopstock? Ma forse che ognuno lo leggerà? No. Noi vogliamo essere meno onorati ma letti un po’ più attentamente - dice Lessing.
Chi non ha sentito parlare della campagna critica di Meyer Schapiro contro Martin Heidegger? Ma forse che ognuno vorrà conoscerla?
Certamente no - dico io. E tuttavia…
[ l’ultimo impressionista ]
Vincent - Ti voglio prevenire che tutti troveranno che lavoro troppo velocemente. Non ci credere. Se non è l’emozione, la sincerità del senso della natura che ci conducono, e se queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora senza accorgersi del lavoro, e che talvolta le pennellate vengono giù una dopo l’altra e i rapporti di colore come le parole in un discorso o in una lettera, bisogna però ricordarsi che non sempre è stato così e che in futuro ci saranno pure dei giorni cupi senza ispirazione. Bisogna perciò battere il ferro finché è caldo e mettere da parte le barre forgiate. [1]
Nel suo studio sull’origine dell’opera d’arte, risalente agli anni 1935-36, il filosofo tedesco Martin Heidegger aveva ripetutamente citato un’opera di van Gogh:
"Un quadro, ad esempio quello di van Gogh che rappresenta un paio di scarpe da contadino, passa da una esposizione all’altra." [2]
Trent’anni dopo il professore americano Meyer Schapiro, considerando che van Gogh aveva dipinto diversi quadri che raffigurano delle scarpe [3], scrisse al filosofo tedesco per chiedergli di quale specifico quadro di van Gogh si trattava.
"Il professor Heidegger, in risposta alla mia domanda, ha gentilmente precisato che il dipinto al quale si riferiva era uno di quelli che aveva potuto ammirare ad Amsterdam all’esposizione del marzo 1930” – ci informa Schapiro; al quale, dopo una rapida verifica, apparve chiaro che il quadro in questione doveva essere quello catalogato da De La Faille con il numero 255
[4], dipinto a Parigi nella seconda metà del 1886, ossia in un periodo e in un contesto del tutto estraneo al mondo contadino.
Così il professore americano si persuase che Heidegger aveva proiettato le proprie teorie filosofiche su quelle “vecchie scarpe con lacci” al fine di trasferirle nel mondo contadino piuttosto che lasciarle ai piedi di van Gogh, al quale era necessario restituirle.
L’attribuzione di queste scarpe divenne una querelle che coinvolse anche Jacques Derrida - per il quale neppure Schapiro poteva ritenersi del tutto ideologicamente disinteressato in questa faccenda di scarpe; e così anche il francese butta giù le sue proprie carte per sparigliare il gioco alla coppia eccellente.

F255
Diamo per scontato che il desiderio d’attribuzione sia un desiderio di appropriazione […] attraverso una brevissima deviazione: l’identificazione, tra molte altre possibili, di Heidegger con il mondo contadino e di Schapiro con quello cittadino, del primo con chi è radicalmente sedentario e del secondo con chi è emigrato e senza più radici.[5]

Perché alla fine non si tratterebbe soltanto di capire (e di scoprire) di chi sono e di che cosa sono (fatte) quelle scarpe (reali e dipinte), ma anche di comprendere se siamo di fronte a delle paia di scarpe e professori, o a scarpe e professori spaiati; di capire, o cercare di capire, da cosa e in cosa tutti costoro sarebbero appaiati o spaiati...
Per trattare adeguatamente l’intera faccenda bisognerebbe leggere e studiare troppo a fondo. Mi dispiace per Lessing, ma io sono capace di appassionarmi solo delle prime suggestioni.
Dopo tutto sono rimasto pur sempre l’ultimo impressionista.
Proprio così mi aveva gridato nel 1960 un tizio beffardo scorgendomi in basso, sul greto del Tevere, mentre dipingevo en plein air gli alti muraglioni degli argini da cui spuntavano le pallide facciate di San Rocco e San Girolamo dei Croati.
Mi era andata comunque meglio che a van Gogh al mercato di patate dell’Aia, dove un tizio dalla finestra sputò la cicca di tabacco biascicato direttamente sul suo disegno.[6]
Nondimeno,
io, sopraffatto dall’anacronismo, mi rifugiai in casa;
lui, ci impastò contro la sanguigna e tirò avanti a disegnare.

[1] - Lettera di Vincent van Gogh al fratello Theo, n. 631-504 (Arles, 25 giugno 1888). NB. Nella numerazione delle lettere la prima cifra corrisponde alla classificazione dell’Huygens Instituut del 2009, la seconda a quella dell’edizione Verzamelde brieven 1952-1954 (e Complete letters 1958).
[2] - Martin Heidegger, L'Origine dell'opera d'arte, in Sentieri Interrotti (Holzwege), trad. Pietro Chiodi, Nuova Italia, Firenze 1968 (da adesso Origine Ni68). Una più recente edizione è quella Bompiani (I ed. 2002, II ed. 2006), cura e traduzione di Vincenzo Cicero (da adesso Origine Bo06). Ma la mia prima lettura è stata quella dell’edizione Nuova Italia del 1968.
[3] - Vedi tavola con 7 quadri di scarpe.
[4] - Un paio di scarpe, Parigi, seconda metà del 1886, olio su tela cm. 37.5x45.0; Van Gogh Museum, Amsterdam (vedi immagine in alto). L'opera è stata classificata da J.B. de la Faille con il numero 255 (L’oeuvre de Vincent van Gogh, 1928, 4 vol., in 4º).
[5] - Derrida, Restituzioni, in La verità in pittura, cit. p. 249-250.
[6] - Vincent a Theo, L’Aia 17 settembre 1882 (n. 264-230).






SCARPE [dall’estetica alla podistica]
parte prima H.D.S. MAROQUINERIES
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